Emergenza Coronavirus: cosa sappiamo e cosa dobbiamo sapere
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Emergenza Coronavirus: cosa sappiamo e cosa dobbiamo sapere, anche nel calcio

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Dal 18 maggio via agli allenamenti di squadra: il mondo del calcio prepara le contromisure per superare l’emergenza Coronavirus

Ci sono alcuni aspetti dell’emergenza Coronavirus che non vanno persi di vista. Si tratta delle linee principali che hanno tracciato la gestione di questo momento storico e sui quali si fonda inevitabilmente il programma di ripresa, che va ben oltre la ripresa degli allenamenti consentiti negli sport di squadra a partire dal prossimo 18 maggio.

Quello che stiamo vivendo è un’emergenza sanitaria. E ancora oggi la scienza non ha trovato una contromisura certificata per garantire la normalità. Non c’è un vaccino per prevenire il COVID-19 e le cure al momento sono più frutto di esperienza dei medici impegnati in prima linea che procedure standardizzate, proprio perché la malattia è ancora in fase di studio. L’emergenza, insomma, oggi ha gli stessi fattori di rischio esistenti all’inizio dell’epidemia.

Questi mesi hanno certamente dato la possibilità di conoscere meglio i comportamenti del virus, e di raccogliere quante più informazioni utili ai fini statistici: il Coronavirus, però, era un problema serio ieri, lo è oggi e lo sarà domani, almeno fino a quando la medicina non avrà una contromisura certa.

A cosa è servito allora rimanere chiusi in casa per tutto questo tempo? Non è chiaro a tutti il motivo principale che ha costretto il Paese a rinunciare alla propria quotidianità. Ebbene le tavole statistiche, nelle prime due settimane di emergenza, fecero subito scattare la massima allerta di protezione civile: la rapida espansione del virus, contrapposto ai tempi di cura necessari a quella percentuale di soggetti che necessitavano supporto in regime di terapia intensiva, minacciava infatti di portare al collasso il sistema sanitario italiano. Di fatto, per alcune settimane successive, ciò è avvenuto: e in tal senso sono stati necessari gli aiuti di altri Paesi che hanno ospitato pazienti italiani e i trasferimenti in altre regioni dalle aree più colpite dal virus.

La Fase 2 dell’emergenza, di fronte alle ultime settimane che hanno allentato la pressione nei nosocomi italiani, altro non è che la gestione dell’emergenza in una logica di autosostentamento. Da quì un passaggio chiave del premier Conte nell’annunciare la parziale riapertura del Paese: quello sul rischio controllato. Una lettura cinica dello scenario spinge la politica a ripristinare condizioni che potrebbero far lievitare nuovamente quella percentuale famosa di pazienti in terapia intensiva (che ha portato a più di ventimila morti) ma è l’unica scelta possibile per ridare ossigeno alla produttività del Paese, senza la quale i danni potrebbero essere superiori a quelli causati dall’emergenza sanitaria, che espone al rischio di mortalità una bassissima fetta di pazienti che contraggono il virus.

Cosa c’entra il calcio in tutto questo? Dipende da quanta voglia si ha nel trovare rifugio all’interno del mondo pallonaro, dolce culla per populisti di tutte le razze: che siano per la ripresa o per la sospensione definitiva del campionato. Anche quì, però, i numeri dettano oggettivamente un preciso indirizzo. L’azienda calcio, oggi, è tra le prime cinque del Paese, tra quelle che – seppur in forma ridotta – hanno la necessità di tornare a creare produttività per la sopravvivenza.

E su questa linea calciatori, tecnici e tutti coloro che lavorano in un club professionistico vanno equiparati ai dipendenti di quelle aziende che torneranno a svolgere la propria attività, seppur con il massimo rispetto delle misure di prevenzione. Chiaramente le condizioni della Serie A sono ben diverse e più agiate rispetto alle categorie inferiori, dove serviranno misure più cautelative e programmi di ripartenza mirati a garantire la sopravvivenza delle società.

Ripescando il concetto del «rischio controllato» sopra citato, la Serie A può anche pensare di vivere per un po’ di tempo senza il supporto dei botteghini, e magari con qualche sponsor in meno. Nelle altre categorie, senza queste due componenti, il rischio di fallimento è decisamente più alto. Ad oggi, però, è impraticabile l’idea di uno stadio con il pubblico perché gli assembramenti non potranno essere consentiti fino a quando la medicina non avrà una cura definitiva per il COVID-19.

Sarà un calcio diverso al pari della vita, fino a un ritorno alla normalità che non sarà altro che l’inizio di una nuova era. Forse più consapevole, più toccata da questo momento. Nel frattempo serviranno responsabilità e massimo rispetto delle regole, oltre le quali i fattori di rischio potrebbero cambiare le carte in tavola.

Quanto all’azienda calcio, a questo punto, non è la politica del Paese a dover stabilire come si deve portare a termine la stagione calcistica, ma la politica sportiva. Non che la seconda appaia oggi più solida della prima, ma la passione e il senso di appartenenza a un mondo a tutti caro potrà spingere a fare squadra. Anche perché una cosa appare evidente: le squadre di calcio non hanno bisogno di fare allenare i calciatori in gruppo se non possono giocare le partite.

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