Benfica Juve: la fine di un'epoca di una squadra inferiore
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Benfica Juve: la fine di un’epoca di una squadra inferiore

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Benfica Juve 4-3 ha segnato la fine di un’epoca della squadra bianconera, che ieri si è dimostrata ampiamente inferiore

Il verdetto di Benfica-Juventus era preventivabile. Tra la prima che sta dominando la Liga Portugal e una squadra che in questo momento è ottava in Serie A la differenza è del tutto evidente. Lo era stata per di più pure all’andata, quando si era visto come i lusitani fossero stati capaci di superare le difficoltà e la Juve, al contrario, avesse rischiato il crollo totale. Se poi si voleva proporre un altro confronto a distanza per mettere ancora più a fuoco la questione, c’era la sconfitta in Francia dei bianconeri alla prima giornata e il doppio 1-1 fatto dal Benfica con il Psg, a dimostrare che su un livello alto questa squadra ci sa stare.

Basta guardare l’annata della Juve per accorgersi che i passi falsi con un’impressione di soggezione totale sono stati troppi, il più evidente dei quali quello con il Milan, ovvero la squadra campione d’Italia che dovrebbe costituire il primo punto di riferimento al quale puntare. Per tutti questi motivi – e ce ne sarebbero altri – ho avvertito come stridente la comunicazione antecedente Lisbona, dove si è parlato della possibilità della vittoria addirittura per 2-0. So bene che spesso a usare un profilo più basso si passa per eccessivamente timidi e poco motivanti, ma mi chiedo se poi certe dichiarazioni non ottengano l’effetto contrario. Quanti tra i giocatori realmente pensavano che si potesse giocare alla pari e addirittura riaprire il discorso qualificazione? Io mi ero dato l’1% delle possibilità – ho i tweet da esibire, Vostro Onore – anche se non pensavo che fino a un certo momento della partita si fosse in una totale umiliazione. Che non era limitata solo al punteggio, 4-1. C’era qualcosa di più: la perdita della minima speranza di colmare il gap in qualche maniera. Viva il calcio, quindi, se poi basta un ragazzino di 19 anni con coraggio e piedi di nome Iling-Junior per riaprire una prospettiva. Quasi a suggerire la possibilità di un’altra Juve già in casa.

Ma questo è un tema troppo grande per affrontarlo nel caldo di una sconfitta che chiude un’epoca. Suggerisco due soli spunti di riflessione: inutile vaneggiare ipotesi di rottamazione del gruppo storico a stagione in corso (mai visto fare e mai lo vedrò); inutile vendere il giovanilismo per quello che non è, proponendoli tutti insieme come un blocco unico: quel che Iling-Junior ha mostrato al Da Luz in un quarto d’ora vale più del poco o nulla che si vede in Soulé; e Miretti ha una personalità che merita di non essere considerato un panda da proteggere, una quota giovani da mettere in campo per figura. Salvo indicazioni contrarie, perché a quell’età è facile perdersi o crescere improvvisamente ed è bravissimo chi li capisce (i giovani).

Benfica-Juventus 4-3 è la sconfitta più grave solo perché arriva per ultima, ma la bocciatura era già arrivata in Israele (e ancor prima, a Monza). In Portogallo si è chiusa un’epoca, o meglio se n’è avuta la formalizzazione ufficiale: un lungo periodo nel quale la Juventus è riuscita a stare tra le prime 16 in Europa, passando il girone spesso anche con imprese, riconquistando un rango che si era perduto. Adesso si riparte da zero se non si andrà in Europa League o da +1 se invece la vivremo, senza facili illusioni ma con l’ambizione di chi ha la forza – se ce l’ha – di resettare la delusione e di trovare una nuova cittadinanza misurandosi con coraggio. Credo che potremmo conquistarlo – piano piano, non è un’esplosione come quella vista a Lisbona nell’ambito della “follia” di una gara già decisa – se la smettessimo di proporre interpretazioni riduttive degli eventi. Non si può generare qualcosa di realmente produttivo se oscilliamo tra il senso di vergogna proclamato da Agnelli e la negazione del fallimento detta da Allegri ieri sera. La Juve è stata bocciata, punto e a capo. Non è che può riconquistare una promozione con un ritiro ogni settimana. Ci vuole un’altra consapevolezza, una capacità più profonda di mettersi in discussione.

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